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La scuola che vorrei

Cara Alessandra,




mi chiedi quali siano le mie motivazioni, perché abbia deciso di imbarcarmi nel lungo viaggio del concorso a Dirigente Scolastico attraversando il mare magnum delle 9 aree del bando. Quale sia l’idea di scuola che vorrei… Sono tre i punti chiave della Scuola che vorrei costruire; li posso sintetizzare con: - 1) Ritorno al significato originario etimologico della parola scuola; - 2) Al centro dell’attività della Scuola di ogni ordine e grado: abilità emotive; - 3) Costruzione di una scuola EDONISTICA (etimologicamente parlando)

1) RITORNO AL SIGNIFICATO ETIMOLOGICO DELLA PAROLA SCUOLA Distogliendo gli occhi dall'ansia utilitarista, che non trova pace se non collega la formazione al lavoro, ed è diventata tanto più ossessiva quanto più il lavoro si allontana e scompare, fa piacere disintossicarsi ripensando alla lontana origine della scuola. La parola viene dal greco σχολή skolé, che significa tempo libero. In latino corrisponde a otium: tempo libero da impegni pubblici, riposo dalle occupazioni, dagli affari. L'esatto contrario del lavoro. Pertanto: skolé = otium = tempo libero = scuola. Un pensiero da incorniciare. Ha un effetto liberatorio, infatti, quando si è presi dalle interminabili e infruttuose discussioni sulle "alternanze scuola-lavoro", mentre il tempo scarseggia, ricordare l'origine del fenomeno, la materia prima della scuola, che è all'opposto, e a sorpresa, il tempo libero, da cui deriva la noia, e dalla noia la curiosità e la meraviglia di fronte alla conoscenza. Se non vi fossero stati, anticamente, uomini finalmente liberi dal bisogno, in genere nobili o comunque benestanti, esentati grazie al lavoro dei servi dalla dura lotta per la sopravvivenza di fronte a una natura ostile, la scuola non sarebbe mai nata. C'è da quando a qualcuno è stato dato il privilegio di avere tempo per sé, da trascorrere piacevolmente, liberamente, senza obblighi urgenti, lontano dagli affari, dalle grane e dagli affanni. La conoscenza è frutto di questa libertà e trova la sua ragione in se stessa, non nell'utilità economica e nella conseguente sottomissione alla durezza delle necessità quotidiane. Anzi, proprio perché libera, riferita a un altro tempo, un tempo diverso da quello scandito dalla durezza dei bisogni, la conoscenza può mettere in discussione tali presunte necessità, tutte le necessità, l'idea stessa di necessità. Ciò che allo schiavo, privo di tempo e immerso nella fatica, è sembrato un vincolo fatale e invincibile, può invece rivelarsi all'uomo libero come uno stato passeggero, provvisorio, modificabile, grazie alla conoscenza. Questa è la scuola, che apre altri mondi. La capacità di vedere oltre l'immediatezza dei bisogni elementari, disponendo di un tempo libero, dedicato unicamente al proprio sviluppo personale, è stato per secoli un beneficio per pochi privilegiati. Le nostre scuole esistono invece per estenderlo democraticamente a tutti. Se ci riescano o no è oggetto di discussione. Sempre più spesso, invece, troviamo documenti scolastici che, a vario titolo, riportano un'intenzione programmatica di segno contrario che trovo sgradevole e insensata. Eccola: "Diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale..." Questa frase suona falsa e insostenibile rispetto al senso originario della scuola- specialmente in considerazione del nesso tra conoscenza e tempo libero. E anche adesso, ripensandoci, devo dire che più la leggo e meno mi convince. Vedere nella conoscenza uno strumento, anzi il più efficace strumento, di un'economia che intende dominare il mondo è un'aberrazione. La conseguenza è che anche la scuola (otium e skolé) viene associata ai suoi opposti, alla competizione e alla volontà di primeggiare, e degradata a strumento per raggiungere mete che le sono estranee. La frase suona falsa perché è la giustificazione teorica dell'eteronomia scolastica. Introduce a una scuola che ha abbandonato il privilegio della conoscenza per piegarsi alla mera convenienza e all'opportunità economica. Posta infatti una simile premessa, perché studiare? Per essere i primi, per diventare i campioni del mondo, o anche solo, più modestamente, per salire di qualche gradino nella scala sociale, per "farsi avanti", come suggeriscono Alesina e Giavazzi ai loro studenti della Bocconi in un pamphlet che vorrebbe dimostrare che il liberismo è di sinistra. Ma queste sono motivazioni da mentecatti, tipiche degli studenti asini, quelli che continuamente chiedono, per giustificare la loro inadeguatezza davanti a qualsiasi argomento: "Ma a che cosa serve?" Mentre dovrebbero invece riflettere circa l'origine, il presupposto oscuro di quella stupida domanda: ma da dove veramente proviene? E soprattutto: dove inevitabilmente porta? Certo, l'ottusità che pone la conoscenza al servizio della competizione, per raggiungere il dominio, ama accampare (vedi sopra) delle scuse filantropiche, dai toni vagamente sociali, tipo "sviluppo sostenibile", "coesione", "migliori posti di lavoro", ma sono soltanto dei riempitivi, che non riescono né a mascherare né a nobilitare la prima e prevalente intenzione: "Diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo..." Questo insulso proponimento, se enunciato in una scuola vera, da uno studente reale che grazie all'economia della conoscenza più competitiva e dinamica del pianeta non fa mistero di studiare da campione del mondo (probabilmente di export, perché altre guerre coloniali, almeno per il momento, sembrano escluse), potrebbe al massimo strappare un sorriso di compatimento da parte di un docente comprensivo, uno di quei sorrisetti che contagiano le classi e ti rovinano la reputazione. E invece non c'è tanto da ridere. L'insulso proponimento non rispecchia purtroppo le illusioni di un mentecatto qualsiasi. Si tratta invece dell'obiettivo principale, anzi "strategico", "nel contesto di un'economia basata sulla conoscenza", approvato dal Consiglio europeo, a Lisbona, nella sessione straordinaria del 23 e 24 marzo 2000. Rappresenta dunque l’origine dei molti celochiedel€uropa PON PON e delle varie raccomandazioni della UE ai sistemi educativi degli stati aderenti: è insomma, per farla breve, l’atto fondante della pedagogia europeista. La scelta strategica di Lisbona, dal punto di vista scolastico, è questa: L’associazione dei sistemi scolastici all’economia (anzi a un modo di intendere l’economia, codificato dai trattati); l’inserimento del conoscere nel quadro della competizione, il valore fondativo guida; la ridefinizione delle finalità scolastiche in rapporto a tale valore; la conseguente riduzione della stessa conoscenza a competitività. Scelto il criterio della competitività come misura di tutte le cose (funzionale a un capitale aggressivo sui mercati globali secondo un modello mercantilista e finanziario), gli altri pilastri della pedagogia del gambero (nella brillante definizione di Bruno Dagnini) si impongono di conseguenza, come elementi caratteristici e interconnessi di una stessa visione economica: la meritocrazia, il produttivismo aziendalista, e infine la svalutazione della scuola, cioè la deflazione scolastica, la sottrazione di valore all’istruzione, ai titoli di studio, al lavoro dei docenti, alla spesa pubblica necessaria per l’espansione del sistema formativo. Mentre il collegamento tra competitività, meritocrazia e produttivismo, appare intuitivamente a tutti, più difficile è invece comprenderne il necessario esito finale: la deflazione scolastica, la perdita di valore della formazione. Anche perché i documenti europei, e la stessa legge italiana della Buona Scuola (la 107/15), sono scritti proprio per nasconderlo. La strategia di Lisbona ama infatti presentarsi enfaticamente come un riconoscimento della posizione centrale dell’istruzione nel modello economico competitivo, ed esalta l’importanza della scuola nel processo di costruzione dell’Europa. Anche per la scuola, tuttavia, vale l’ipoteca che l’ordoliberismo estende a qualsiasi produzione umana: il privilegio accordato al privato contro il pubblico e la sottomissione alla regola del profitto. Dunque una conoscenza esaltata e centrale sì, ma nel senso che deve costare di meno, ed essere sottratta al controllo dello Stato, come tutte le cose importanti. Nella pedagogia del gambero, quella che l’Europa ci chiede nelle sue raccomandazioni, a cominciare dalla strategia di Lisbona, sono scomparse le più profonde radici storiche della scuola, e le stesse ragioni della conoscenza: di otium e skolé non rimane infatti alcuna traccia. La scuola che io vorrei si fonderebbe invece sull’antropologia economica di Serge Latouche, una scuola che faccia uscire il martello economico dalla testa, che decolonizzi l’immaginario occidentale che è stato colonizzato dall’economicismo sviluppista. Una scuola che metta al centro una strategia di decrescita incentrata sulla sobrietà, sul senso del limite, sulle 8 R (riciclare, riutilizzare…) per tentare di rispondere alle gravi emergenze del presente. 2) AL CENTRO DELLA SCUOLA LE ABILITÀ EMOTIVE Esiste nella scuola un’espressione che più di ogni altra genera in me fastidio: “ci vuole buona volontà”; un’espressione imprecisa al limite dell’insignificanza che alimenta i colloqui fra genitori e professori, costruita con frasi del tipo: “Dovrebbe metterci più buona volontà”, “Dovrebbe impegnarsi di più”, “È sempre disattento”, “Lega poco in classe”, in cui c’è un precipitato di genericità e forse di ignoranza propria di chi non sa che la volontà non esiste al di fuori dell’interesse, che l’interesse non esiste separato da un legame emotivo, che il legame emotivo non si costruisce quando il rapporto tra professore e studente è un rapporto di reciproca diffidenza, se non di assoluta incomprensione che scatta non appena la psicologia dello studente esce dagli schemi della psicologia del professore. Per questo basta pochissimo e, se si evita il suicidio che, come scrive Luigi Cancrini “non dipende tanto dalle difficoltà che si incontrano, quanto dalla paura di essere rifiutati o abbandonati”, certo non si evita quella demotivazione insidiosa che spegne in giovani vite il rispetto di sé. Ha lasciato scritto in proposito una studentessa liceale - morta suicida: “Sia genitori sia insegnanti mi esortavano a studiare. E io studiavo, provando una noia mortale, con l’attenzione corrotta dal dubbio che stessi lavorando inutilmente, perché era indipendente dalla volontà l’esito del mio lavoro. Mi era negata ogni possibilità di sentirmi capace di gestire gli eventi scolastici che mi riguardavano. Le pagine erano disanimate, straniere, mi avvicinavo a loro con l’urgenza di altri pensieri insieme al senso di colpa per il fatto di averne. Piano piano sentivo che cresceva in me la convinzione che la cosa non mi riguardasse, e alla fine, quando i miei genitori erano arrivati a preoccuparsi gravemente, a me non interessava più nulla di quel che veniva detto a scuola. Erano discorsi di cui vedevo immediatamente l’inutilità, la contraddizione. Mi sembravano linguaggi parlati da estranei e non certo rivolti a me. E a nessun insegnante sembrava importasse qualcosa di queste mie sensazioni, anzi, andava bene perché non disturbavo più, non facevo più domande e non mi arrabbiavo. Non parlavo neppure con i compagni, perché loro erano bravi e mi guardavano come se fossero dei professori. Non c’erano più amici con cui parlare dei pensieri che mi venivano al posto della voglia di studiare, ma solo giudici, tante persone che avevano capito tutto e sapevano proprio tutto. Ma tutto cosa? Quando ci riflettevo, spesso piangendo, mi chiedevo che segreti avessero scoperto dai libri o dai discorsi degli insegnanti. Poi, col tempo, me ne importava sempre meno, e questo tipo di domande ora non me le pongo più. Quello che sanno delle cose della vita non gli serve a niente, e non li fa neppure essere felici: qualsiasi cosa sia, ciò che hanno capito non gli ha cambiato il modo di stare al mondo”. È questo uno dei percorsi adolescenziali che, non intercettati dallo sguardo opaco di genitori e insegnanti, si possono leggere in Domenico Starnone che, con la partecipazione viva di chi sa che nella scuola si seminano le successive disavventure della vita, parla da professore ricordando la sua afasia da studente: Tutta la mia vita di studente è stata, se ridotta all’osso, uno star buono, schivare all’occorrenza, arrendersi subito in caso di necessità. Parlare, naturalmente parlavo solo se interrogato. L’interrogazione misura il “profitto”, ma siccome il profitto è l’ultimo risultato di quella catena che, percorsa a ritroso, indica comprensione, interesse, sollecitazione emotiva, non è difficile demotivare, anche in modo grave, studenti giudicati in base all’esito che può scaturire solo da premesse che la scuola ha evitato di curare. L’educazione del cuore Se non si dà apprendimento senza gratificazione emotiva, l’incuria dell’emotività, o la sua cura a livelli così sbrigativi da essere controproducenti, è il massimo rischio che oggi uno studente, andando a scuola, corre. E non è un rischio da poco perché, se è vero che la scuola è l’esperienza più alta in cui si offrono i modelli di secoli di cultura, se questi modelli restano contenuti della mente senza diventare spunti formativi del cuore, il cuore comincerà a vagare senza orizzonte in un nulla inquieto e depresso. Quando parlo di “cuore” parlo di ciò che nell’età evolutiva dischiude alla vita, con quella forza disordinata e propulsiva senza la quale difficilmente gli adolescenti troverebbero il coraggio di proseguire l’impresa. Il sapere trasmesso a scuola non deve comprimere questa forza, ma porsi al suo servizio per consentirle un’espressione più articolata in termini di scenari, progetti, investimenti, interessi. Infine resta la vita, e il sapere lo strumento per meglio esprimerla. Laddove invece il sapere diventa lo scopo e il profitto il metro per misurarlo qualunque siano le condizioni d’esistenza in cui una vita è riuscita a esprimersi, la scuola fallisce, perché livella, quando non mortifica, soggettività nascenti in nome di un presunto sapere oggettivo che serve a dare identità più ai professori che agli studenti in affannosa ricerca. “Causa prima” di devianza, rispetto a tutte le “cause seconde” che la sociologia vede alla base del disagio giovanile, la scuola si offre con quel volto irresponsabile di chi si tiene fuori dai problemi connessi ai processi di crescita e, limitando consapevolmente il suo spazio operativo, manifesta quella falsa innocenza che l’oggettività del trattamento (profitto-giudizio) è sempre disposta a concedere a chi non si prende cura della soggettività dei giovani, perché mettervi le mani non garantisce di poterle tirar fuori davvero pulite e disinfettate. La formazione dei professori Questi sono i problemi della scuola, problemi che si possono risolvere solo con la formazione, e non solo la preparazione, di professori che abbiano come tensione della loro vita la cura dei giovani. E come non si può fare i corazzieri se si è alti un metro e cinquanta, cominciamo a chiederci perché si può insegnare per il solo fatto di possedere una laurea, senza alcuna richiesta in ordine alla competenza psicologica, alla capacità di comunicazione, al carisma. Sì, proprio il carisma. Tutti abbiamo conosciuto almeno un professore che è stato decisivo nelle nostre scelte di vita. Perché questa possibilità è sempre più ridotta per i giovani di oggi, quando la psicologia ci insegna che i processi di identificazione con gli adulti, le cariche emozionali che su di loro vengono convogliate sono le prime condizioni per la costruzione di un concetto di sé così necessario per non brancolare nell’oscillazione dell’indeterminatezza? La mancanza di formazione personale, infatti, se non porta gli adolescenti al suicidio, li porta spesso là dove si spaccia musica, alcol e droga, in quella deriva dell’esistere che è poi quell’assistere allo scorrere della vita in terza persona senza esserne granché coinvolti, in ritmi sempre più estremi ed estranei. Per cui, in certo modo, ci si sente stranieri nella propria vita, in quell’insipido trascorrere di giorni, dove equivalente diventa esserci o non esserci, senza che alcun gradiente faccia apparire la vita preferibile al suo nulla, in quell’atmosfera opaca e spessa che si frappone tra sé e le proprie cose, che se ne vanno lontane da una vita che avverte se stessa sempre più anonima e altra. A queste forme di disagio si è soliti rispondere con quell’elenco di riforme dove ciò che si prospetta sono autonomie gestionali, rivalutazione della figura del preside, incentivi materiali, nuovi programmi ministeriali messi a punto in funzione di nuovi profili professionali, accorpamento di indirizzi di studio, commissioni di esperti, informatizzazione di questo e di quello, magnifici libri di testo, corsi integrativi, corsi d’aggiornamento. L’unico fattore trascurato è il frequente disinteresse emotivo e intellettuale dell’insegnante, con trasmissione diretta allo studente, che tra i banchi di scuola finisce per trovare solo quanto di più lontano e astratto c’è in ordine alla sua vita, in quella calda stagione dove il sapere non riesce, per difetto di trasmissione, a divenire nutrimento della passione e suo percorso futuro. Forza d’animo Oggi la si chiama “resilienza”, una volta la si chiamava “forza d’animo”, Platone la nominava thymoeidés e indicava la sua sede nel cuore. Il cuore è l’espressione metaforica del “sen-timento”, una parola dove ancora risuona la platonica thymoeidés. Il sentimento non è languore, non è malcelata malinconia, non è struggimento dell’anima, non è sconsolato abbandono. Il sentimento è forza. Quella forza che riconosciamo al fondo di ogni decisione quando, dopo aver analizzato tutti i pro e i contro che le argomentazioni razionali dispiegano, si decide, perché in una scelta piuttosto che in un’altra ci si sente a casa. E guai a imboccare, per convenienza o per debolezza, una scelta che non è la nostra, guai a essere stranieri nella propria vita. La forza d’animo, che è poi la forza del sentimento, ci difende da questa estraneità, ci fa sentire a casa, presso di noi. Qui è la salute. Una sorta di coincidenza di noi con noi stessi, che ci evita tutti quegli “altrove” della vita che non ci appartengono e che spesso imbocchiamo perché altri, da cui pensiamo dipenda la nostra vita, semplicemente ce lo chiedono, e noi non sappiamo dire di no. Il bisogno di essere accettati e il desiderio di essere amati ci fanno percorrere strade che il nostro sentimento ci fa avvertire come non nostre, e così l’animo si indebolisce e si ripiega su se stesso nell’inutile fatica di compiacere agli altri. Alla fine l’anima si ammala, perché la malattia, lo sappiamo tutti, è una metafora, la metafora della devianza dal sentiero della nostra vita. Bisogna educare i giovani a essere se stessi, assolutamente se stessi. Questa è la forza d’animo. Ma per essere se stessi occorre accogliere a braccia aperte la propria ombra. Che è ciò che rifiutiamo di noi. Quella parte oscura che, quando qualcuno la sfiora, ci fa sentire “punti nel vivo”. Perché l’ombra è viva e vuole essere accolta. Anche un quadro senza ombre non ci concede le sue figure. Accolta, l’ombra cede la sua forza. Cessa la guerra tra noi e noi stessi e perciò siamo in grado di dire: “Ebbene sì, sono anche questo”. Ed è la pace così raggiunta a darci la forza d’animo e la capacità di guardare in faccia il dolore senza illusorie vie di fuga. “Tutto quello che non mi fa morire, mi rende più forte,” scrive Nietzsche. Ma allora bisogna attraversare e non evitare le terre seminate di dolore. Quello proprio, quello altrui. Perché il dolore appartiene alla vita allo stesso titolo della felicità. Non il dolore come caparra della vita eterna, ma il dolore come inevitabile contrappunto della vita, come fatica del quotidiano, come oscurità dello sguardo che non vede via d’uscita. Eppure la cerca, perché sa che il buio della notte non è l’unico colore del cielo. Di forza d’animo hanno bisogno i giovani soprattutto oggi perché non sono più sostenuti da una tradizione, perché si sono rotte le tavole dove erano incise le leggi della morale, perché si è smarrito il senso dell’esistenza e incerta s’è fatta la sua direzione. La storia non racconta più la vita dei loro padri, e la parola che i padri rivolgono ai figli è insicura e incerta. I loro sguardi si incontrano, ma spesso solo per evitarsi. Eppure i giovani, anche se mai lo confesseranno, attendono qualcosa o qualcuno che li traghetti, perché il mare che attraversano è minaccioso, anche quando il suo aspetto è trasognato. Il rischio che corrono, quando evitano le soluzioni estreme, è quello di passare il tempo della loro vita, senza sentimento, senza nobiltà, confusi tra i piccoli uomini a cui basta, secondo Nietzsche, “una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute”. E così perdono il contatto con se stessi nel rumore del mondo. Passioncelle generiche sfiorano le loro anime assopite, ma non le risvegliano. Non hanno forza. Sono state acquietate da quell’ideale di vita che viene spacciato per equilibrio, buona educazione. E invece è sonno, conformismo, dimenticanza di sé. Nulla del coraggio del navigante che, come vuole la metafora di Nietzsche, “lasciata la terra che era solo terra di protezione, non si lascia prendere dalla nostalgia, ma incoraggia il suo cuore”. Il cuore non come languido contraltare della ragione, ma come sua forza, sua animazione, affinché le idee, ben animate dalle passioni, divengano attive e facciano storia. Una storia più soddisfacente. L'etimologia della parola scelta, participio passato sostantivato del verbo scegliere, si ricollega al verbo latino ex-eligere. Ex = da + eligere = selezionare, preferire. Infatti. scegliere significa decidere cosa o chi va selezionato e preferito rispetto ad altro/altri che costituiscono "l'ex" rispetto al quale effettuare la scelta. In ogni scelta, pertanto, è insita una rinuncia, come recita il noto brocardo… aut aut … E non solo, ogni scelta, se autentica, è anche un atto di libertà e di responsabilità e viceversa: un atto di libertà e di responsabilità non può non configurarsi che come autentica (libera) scelta. “Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualcosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto” Questo il commento di Manzoni che troviamo nell’VIII capitolo dei Promessi Sposi. In tutte le decisioni, in tutte le aspettative sul futuro, il cuore interviene sempre. Ma che sa il cuore? Appena poco di quello che è già accaduto. L’emozione tiene di poco conto i fatti accaduti fino a negarne la realtà, perché sa che la sua è l’unica realtà della quale deve tenere conto. Detto con Pascal: Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce. EMOZIONE-IDENTITÀ-SOLIDARIETÀ L'uomo pre-tecnologico - di cui portiamo ancora i segni in noi - agiva in vista di scopi inscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee proprie e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. L’età della tecnica ha abolito questo scenario umanistico, e le domande di senso restano inevase non perché la tecnica non è ancora abbastanza perfezionata, ma perché non rientra fra le sue competenze trovar risposte a simili domande. La tecnica, infatti, non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona. E siccome il suo funzionamento diventa planetario, finiscono sullo sfondo, incerti nei loro contorni corrosi dal nichilismo, i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia di cui si era nutrita l’età pre-tecnologica, e che ora, nell’età della tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o rifondati dalle radici. Nata con i Greci per emancipare l’uomo dall’oscurantismo delle credenze infondate, la ragione si era imposta sulle favole dei miti, sull’approssimazione delle opinioni diffuse, sull’infondatezza delle fedi, sul nichilismo degli scettici. In seguito, perfezionandosi, si è contratta nella razionalità tecnico-scientifica che non promuove altro senso se non il proprio potenziamento afinalizzato. E così, in un orizzonte desertificato dove ogni fine ha la consistenza di un ingannevole miraggio, mancano la direzione, il senso, lo scopo. La scuola che vorrei costruire avrà invece al centro l'emozione che è essenzialmente relazione. E dalla qualità delle nostre relazioni possiamo leggere il grado della nostra intelligenza emotiva a cui la scuola potrebbe dare un positivo contributo, introducendo quei programmi di alfabetizzazione emotiva, come opportunamente li chiama Daniel Goleman, in modo da insegnare ai bambini, oltre alla matematica e alla lingua, anche le capacità interpersonali essenziali, che hanno la loro matrice in quei centri emozionali del cervello che sono poi i più antichi, quelli che hanno consentito agli uomini di dare avvio alla loro storia. Qui torna alla mente la tesi di Eugenio Scalfari secondo il quale la morale è un istinto, l’istinto di solidarietà che favorisce la conservazione della specie, spesso in lotta con l’istinto di sopravvivenza individuale. Non furono pochi quelli che, dopo aver ornato la morale dei più nobili paludamenti, storsero il naso di fronte a questa riduzione della morale al regime pulsionale. Ma Goleman ce ne dà conferma: Siccome l’educazione delle emozioni ci porta a quell’empatia che è la capacità di leggere le emozioni degli altri, e siccome senza percezione delle esigenze e della disperazione altrui non può esserci preoccupazione per gli altri, la radice dell’altruismo sta nell’empatia, che si raggiunge con quell’educazione emotiva che consente a ciascuno di conseguire quegli atteggiamenti morali dei quali i nostri tempi hanno grande bisogno: l’autocontrollo e la compassione. A proposito di empatia fa piacere rileggere le parole di Edith Stein, che si riferisce alla donna come prototipo di”essere umano ideale”: L’animo della donna dev’essere espansiva e aperta a tutti gli esseri umani; dev’essere tranquilla, di modo che nessuna piccola fiamma venga estinta da venti impetuosi; calorosa di modo da non intorpidire i germogli più fragili… vuota di sé, perché la vita esterna possa trovarvi spazio; padrona di sé e anche del suo corpo, di modo che tutta la persona sia prontamente disponibile ad ogni chiamata. Oggi l’educazione emotiva è lasciata al caso e tutti gli studi e le statistiche concordano nel segnalare la tendenza, nell’attuale generazione, ad avere un maggior numero di problemi emotivi rispetto a quelle precedenti. E questo perché oggi i giovanissimi sono più soli e più depressi, più rabbiosi e ribelli, più nervosi e impulsivi, più aggressivi e quindi impreparati alla vita, perché privi di quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a quei comportamenti quali l’autoconsapevolezza, l’autocontrollo, l’empatia, senza i quali saranno sì capaci di parlare, ma non di ascoltare, di risolvere i conflitti, di cooperare. Ai professori che ogni giorno si apprestano a dare giudizi sulle capacità intellettuali dei loro allievi un invito a riflettere prima su quanta educazione emotiva hanno distribuito, perché, a se stessi almeno, non possono nascondere che l’intelligenza e l’apprendimento non funzionano se non li alimenta il cuore. La scuola dovrebbe mettere al centro quelle che Luisa Muraro ne “l’ordine simbolico della madre” chiama “competenza simbolica”: saper stare al mondo con la capacità di dirne il senso. Altrimenti è come un “non stare”. La competenza simbolica non è un possesso ma una qualità della relazione col mondo e ciò che essa a sua volta dà è la capacità di dire con parole proprie e di comunicare il senso della realtà di cui sono parte. Questo, cioè, interpretare il mondo che cambia, significa per chi lo fa trovarsi al centro del mondo come realtà interpretata. Perciò l’agire simbolico, dare senso alla realtà, è anche agire politico, trasformarla. Con parole di Edith Stein: l’anima… è modellata come un rifugio in cui altre anime possono dispiegarsi; la natura dell’animo umano, la ragione per cui esiste è essere in relazione con altre anime. Ciò che dà significato alla nostra vita sono i nostri rapporti. Se la scuola non è sempre all’altezza dell’educazione psicologica, che prevede, oltre a una maturazione intellettuale, anche una maturazione emotiva, l’ultima chance potrebbe offrirla la società se i suoi valori non fossero solo business, successo, denaro, immagine e tutela della privacy, ma anche qualche straccio di solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco, che possano temperare il carattere asociale che, nella nostra cultura, caratterizza sempre di più il nucleo familiare. Cercarlo ci porta lontano, tanto lontano quanto può esserlo l’avvio della loro vita, lungo la quale è stato loro insegnato tutto, ma non come mettere in contatto il cuore con la mente, e la mente con il comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel loro cuore. Queste connessioni che fanno di un uomo un uomo non si sono costituite, e perciò nascono biografie capaci di gesti tra loro a tal punto slegati da non essere percepiti neppure come propri. E questo perché il cuore non è in sintonia con il pensiero e il pensiero con il comportamento, perché è fallita la comunicazione emotiva, e quindi la formazione del cuore come organo che, prima di ragionare, ci fa sentire che cosa è giusto e che cosa non è giusto, chi sono io e che ci faccio al mondo. IN SINTESI: UNA SCUOLA ETIMOLOGICAMENTE EDONISTA   Il rimedio alla situazione descritta è nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità, o, per dirla in greco, del proprio daímon che, quando trova la sua realizzazione, approda alla felicità, in greco eu-daimonía (da cui la parola edonismo). In questo caso il nichilismo, pur nella desertificazione di senso che porta con sé, può segnalare che a giustificare l’esistenza non è tanto il reperimento di un senso vagheggiato più dal desiderio (talvolta illimitato) che dalle nostre effettive capacità, quanto l’arte del vivere (téchne toũ bíou) come dicevano i Greci, che consiste nel riconoscere le proprie capacità (gnõthi seautón, conosci te stesso) e nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura (katà métron). Un ritorno all’edonismo (etimologicamente inteso) potrebbe indurre nei giovani quella gioiosa curiosità di scoprire se stessi e trovar senso in questa scoperta che, adeguatamente sostenuta e coltivata, può approdare a quell’espansione della vita a cui per natura tende la giovinezza e la sua potenza creativa. Se proprio attraversando e oltrepassando il nichilismo i giovani sapessero operare questo spostamento di prospettiva capace di farli incuriosire di sé. Alla specificità del daimon di ciascun alunno deve rispondere una dotazione di molteplici “metodi” da parte dei docenti per le varie discipline, a partire da quella/quelle per cui “l’intelligenza” (Bruner, Rogers) di quell’allievo risulta più versata. Un’autostrada a più corsie, dove quella “veloce” non necessariamente porta al luogo “migliore”. La permanenza nella “propria corsia” può prevedere e giustificare la “ripetenza”, dato che la maturazione complessiva non corrisponde all’età anagrafica posta a base dell’inserimento in una data “classe” (questo per esigenze non dell’allievo). È necessario in una scuola di questo genere sottolineare la funzione orientante del sistema valutativo. Chi mostra con continuità di non apprezzare il lavoro scolastico, va indirizzato progressivamente verso una operatività non semplicemente teorica (non solo libri), in modo da poter incontrare il proprio daimon e, con esso, la felicità. Unicamente in questo senso, in una scuola che valorizza l’identità (a servizio della collettività) c’è bisogno di poter far riferimento a un leader e a una leadership perché la specificità di cui ognuno di noi è dotato possa contare ancora di più. Questo fatto non è così paradossale come potrebbe sembrare. Le persone cercano infatti una guida in grado di ispirare, orientare e organizzare. Un catalizzatore che consolidi e metta a sistema i bisogni e i desideri. Cercano una voce e una presenza fisica (un corpo) tale da rappresentare e promuovere le istanze e dargli continuità e progettualità. Cercano, nell’identità del leader, uno specchio e un amplificatore della propria identità. E perfino un oggetto di stima, rispetto e venerazione da cui trarre ispirazione. In questo senso, e concludo con le parole di Latouche, la scuola che vorrei dovrebbe valorizzare l’aspirazione a un dialogo fra le culture (…) per questo alla prospettiva dell’universalismo deve opporre un “universalismo plurale” che consiste nel riconoscimento e nella coesistenza di una diversità e nel dialogo fra queste diversità.

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